Crepuscolo a Narvik

16,00

AUTORE: Michele Bussoni
TITOLO: Crepuscolo a Narvik
ANNO: ©2023 DI CARLO EDIZIONI
ISBN-13: 979-1281201323

Descrizione

Prefazione
“Crepuscolo a Narvik” è il titolo dell’ultimo capolavoro di Michele Bussoni che, solo in apparenza, potrebbe essere frainteso con una sorta di sequel del suo primo e assai noto “Il gabbiano e il pescatore”. Ma se spostiamo l’attenzione, come sarebbe doveroso fare, dalla geografia ai personaggi, possiamo renderci agevolmente conto di quanto diversi siano, in realtà, i due romanzi. L’ambientazione è l’unico elemento in comune, forse perché, l’autore, per primo, è ammaliato dalle suggestive geografie scandinave o, forse, per una mera ed estemporanea coincidenza. Ma ciò poco importa; quello che, al contrario, rappresenta l’aspetto fondamentale di questo mio argomentare è che, con quest’ultimo suo prodotto letterario, che come editore sono onorato di pubblicare, l’autore ha raggiunto una maturità narrativa superba, un’apoteosi artistica disarmante e, infine, il merito di essere riuscito, con elegante maestria, ad alleggerire il carico psicologico dal quale nascono, si plasmano ed evolvono gli stessi personaggi, sia quelli viventi che non viventi. Prima di lui, in pochi hanno saputo perseguire tale prerogativa e Bussoni, all’apice della sua maturità, è stato in grado di “dipingere con una policromia sconosciuta anche ad autori ben più noti e blasonati dello stesso”. La narrazione si svolge al crepuscolo di Narvik o, per essere più precisi, della Zelkova, albero che riassume un significato simbolico profondo per diverse ragioni. Non solo per quelle biologiche, ma per le “radici profonde e resilienti” che diventano veri e propri sinallagmi giuridici di quel contratto che ogni uomo ha sottoscritto con la “Vita”. L’autore sembra avere realizzato una sorta di “vademecum” utile per meglio comprendere il senso ontologico dell’umana esistenza, della psiche e, perché no, anche di quell’arte che, molto spesso, è innata nel rerum natura e nell’essere umano. Nel far ciò egli distanzia l’artista-scrittore dalla stessa morale in modo assoluto, poiché l’arte-scrittura altro non è che la libertà d’essere e di manifestarsi di chi, grazie a essa, si libera del gravoso giogo della morale che, come una nebbia impenetrabile, avvolge lo squallore e le orripilanti contraddizioni della società in cui vive. Nella prima parte del romanzo è volutamente palese la contraddizione della morale della società che ci circonda, ma non ci si potrebbe aspettare nulla di diverso da uno scrittore che, al contempo, è creatore di bellezza, non un moralista ma un artista, ergo il motivo per il quale non vi è e non può esserci alcuna condanna alla sua magistrale opera. Di fatto l’arte è fonte di immedesimazione e quindi di introspezione, proprio perché, nel comprenderla, mette a nudo l’osservatore, il quale non sempre è pronto a vedere e ad ammettere i propri orrori. L’atteggiamento che Bussoni ha nella sua forma d’espressione artistica, immersa continuamente nel paradosso tra la bellezza dell’opera e la miseria umana, sembrerebbe simile alla biologia della Zelkova. Di quest’ albero deciduo, con chioma folta, alto fino a trenta metri, la cui corteccia, grigia e liscia, invecchiando si sfalda a chiazze arancioni. Le sue foglie sono dentate, verde scuro e, in autunno, si veste di una splendida colorazione che vira dal giallo, all’arancio, al rosso. Simbolicamente é l’aforisma di questo avvincente romanzo che, proprio come la Zelkova, contiene il suo modo d’essere paradossale, ovvero esteta e decadente, volutamente e solo in apparenza. Ma è proprio nell’esegesi del libro che va ricondotta una nuova lettura che va oltre all’estetismo decadente. È così, tra il ghiaccio e il fuoco, inizia e si consuma il ciclo vitale e, con esso, tutte le sue debolezze, i suoi orrori e le sue contraddizioni. Il “Crepuscolo a Narvik” è un libro che non lascerà indifferente il lettore, al contrario, sono certo che lo condurrà verso una sorta di “recher du temps perdu” post litteram, alla cui conclusione, spontanea seguirà l’esigenza di imbarcarsi nella ricerca di un mondo perduto o, forse, sarebbe meglio dire, di un mondo oltremodo “perso e stanco di tutto”, proprio come l’essere umano che lo abita, proprio come un albero che perde le foglie.
Antonello Di Carlo

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